Porto il velo, adoro i Queen alla Casa per la Pace di Milano

 

La Casa per la Pace di Milano fin dal 2001 affronta i temi della nonviolenza (disarmo, gestione positiva dei conflitti e diritti umani). Uno degli strumenti più efficaci contro la violenza è l’interculturalità.

All’interno della Casa per la Pace è attiva una scuola di italiano per donne straniere. La possibilità di comunicare è il primo passo verso l’inclusione sociale degli “altri” e l’emancipazione delle donne “straniere”.

Mercoledì 7 febbraio alle 18:30, all’interno della rassegna interattiva sui pregiudizi Gli Altri Siamo Noi (visitabile fino al 7 marzo) sarà proiettato il docufilm Porto il velo, adoro i Queen, perché l’impegno sociale di Fargo Entertainment ha come punto fermo i diritti dei migranti.

Calendario eventi della 'Mostra interattiva sui pregiudizi'
Calendario eventi della ‘Mostra interattiva sui pregiudizi’

La proiezione avrà luogo nei locali della stazione ferroviaria di Porta Vittoria presso la galleria Artepassante.

Dopo la proiezione, come di consueto, ascolteremo le domande dei presenti nel tentativo di abbattere ancora una volta qualche muro, e di costruire qualche nuovo ponte.

 

New York, New York





New York è una location di Porto il velo adoro i Queen


Una parte del docufilm Porto il velo, adoro i Queen è stata girata a New York

Il primo dei motivi è abbastanza evidente: la Grande Mela, abitata da milioni di immigrati, è la metropoli cosmopolita per antonomasia. Ellis Island, isolotto artificiale alla foce del fiume Hudson creato coi sedimenti e i detriti prodotti dalla costruzione della metropolitana, nel corso di un secolo ha visto transitare ben dodici milioni di esseri umani europei e italiani alla ricerca di un futuro.

C’è un secondo motivo per cui Luisa ha pensato che potesse essere una buona idea iniziare le riprese negli Stati Uniti. L’impresa consisteva nel riuscire a convincere Sumaya Abdel Qader e Batul Hanife a diventare le protagoniste del suo nuovo docufilm. “Se le invito a fare un giretto negli USA, può essere che accettino la parte“.

Lo stratagemma ha funzionato: una trasferta all’estero con conseguente condivisione dell’alloggio (un appartamento ad Harlem vicino a Central Park) può essere un ottimo modo per approfondire la conoscenza delle persone con cui si vuole lavorare.

Takoua e Batul in viaggio per New York
Takoua e Batul in viaggio per New York

Il terzo motivo che ha spinto Luisa a muoversi a New York è stato il desiderio di intervistare Merve Safa Kavakçı.

Nel 2004 è stata riconosciuta tra le Women of Excellence dalla George Washington University (dove insegna Storia delle istituzioni e delle relazioni politiche internazionali) e dalla NAACP (acronimo di National Association for the Advancement of Colored People). Merve è considerata una dei cinquecento musulmani più influenti al mondo, è consulente al Congresso degli Stati Uniti per il mondo musulmano, ed ha una storia importante alle spalle.

In Turchia è stata esponente del Partito della Virtù (in turco Fazilet Partisi).

Il 2 maggio 1999, i membri del Partito della Sinistra Democratica le impedirono di prestare giuramento durante la cerimonia giurata per aver infranto il disposto legale kemalista che vieta di ostentare simboli religiosi nei luoghi pubblici. Merve Kavakçı non volle piegarsi alla legge e insistette a indossare il suo hijab anche in Parlamento

Merve Safa Kavakçı
Merve Safa Kavakçı

Nel 2007 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che l’espulsione di Merve Kavakçı è avvenuta in violazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Da allora, ha viaggiato per il mondo in rappresentanza e sostegno delle donne musulmane a difesa del loro diritto di indossare l’hijab.

Porto il velo, adoro i Queen non è, e non vuole essere, un film che fa proselitismo religioso. La pellicola intende innanzitutto veicolare un messaggio forte contro la misoginia e la xenofobia, di cui il corollario islamofobo è una delle conseguenze.

Nel 1999 Merve Kavakçı è stata premiata con il Service to Humanity Award da Haus Der Kulturellen Aktivität und Toleranz a Vienna. Nel 1999 ha ricevuto il premio di Madre dell’anno dalla Capital Platform of Ankara e dalla National Youth Organization.

“Nessuno può dire a una donna come deve vestirsi, o come deve svestirsi”; ecco il messaggio (secondo me incontestabile) che Merve Safa Kavakçı ha lasciato nel corso dell’intervista.


Mentre Sumaya e Batul partecipavano alla preghiera del venerdì , Luisa ha intervistato Chernor S. Jalloh, Immam del Centro Culturale Islamico di New York.

Chernor ha ribadito ancora una volta che l’Islam è una religione di pace – ma lo sapevamo già; il problema sono gli esseri umani, non la loro fede. Un malvagio è malvagio a prescindere dalla fede a cui appartiene, e non esiste religione che possa assolverlo o giustificarlo.

Spostarsi a New York per girare un film che parla (anche) di Islam senza visitare il National September 11 Memorial & Museum sarebbe stata una lacuna imperdonabile; le due vasche di granito su cui sono incisi i nomi delle vittime comunicano un sentimento di gelida, straniante bellezza.

Batul al National September 11 Memorial
Batul al National September 11 Memorial

A Little Italy si respira un’aria diversa – anche se di Italy, al quartiere, è rimasto solo il nome. Di italiani autentici ne sono rimasti ben pochi.

Sumaya e Batul si sono mosse in giro per le strade di Little Italy a caccia del connazionale perduto.

Alla fine, qualche italiano vero lo hanno trovato.

Batul, Sumaya e un italiano vero
Batul, Sumaya e un italiano vero

Cose che ho imparato da Porto il velo, adoro i Queen





Cose imparate dal docufilm di Luisa Porrino Porto il velo, adoro i Queen


Poco meno di un anno fa, ricevetti una telefonata da Luisa. Pensavo che avesse intenzione di parlarmi del breve filmato pubblicitario di cui, un paio di settimane prima le avevo parlato, appollaiati all’interno cortiletto di un posto dell’ARCI.

Orbene, c’era questo terzetto di imprenditori del catering che necessitava di un sito web, e voleva un filmato inserito nel header. I miei potenziali clienti avevano delle idee un po’ bizzarre in testa (filmino passo uno con fiori di Bach che spuntano dalla sabbia e si trasformano in qualcosa, droni che riprendono cerimonie nuziali, preventivi a pagamento decorati a mano… cose così). Mi era stato richiesto, in particolare, che il sito fosse “innovativo”. Tutti i webmaster sanno che il committente, in linea di massima, per innovativo intende l’icona di Facebook che si illumina quando ci passi sopra col mouse.

È andata a finire che i tre non accettarono né la mia idea di innovazione, né (soprattutto) il mio preventivo, per cui del filmato in stop motion non se ne fece nulla.

L’argomento della telefonata di Luisa non atteneva, però, a quel clippino. C’era la locandina di un film da “mettere un po’ a posto” per il Rome Indipendent Film Festival. Il film in questione era Porto il velo, adoro i Queen.

Insieme al file della locandina, opera di un teppista del Photoshop, Luisa mi passò una copia del suo nuovo docufilm.

Quella sera stessa lo guardai, e ne rimasi folgorato.

C’è un mucchio di gente che vive nel pregiudizio di non avere pregiudizi. Non credo di appartenere a quella categoria. Sono consapevole di avere molti pregiudizi. Ad esempio, non sopporto i razzisti. Che poi, di razzisti consapevoli di essere razzisti, non è che ne siano rimasti molti. Si sono trasformati in sciovinisti sostenitori di una qualche supposta superiorità delle culture occidentali sulle altre. Ecco, anche questi non li reggo.

Ed esiste un’altra categoria di persone su cui ho un incrollabile pregiudizio: chi è affetto da quella patologia che corre sotto il nome di “misoginia”. O fratelle e sorelli; ognuno ha i suoi propri inaccettabili sacrosanti pregiudizi, ed io, nel mio piccolo, difendo i miei a spada tratta.

La prima volta che vidi il docufilm di Luisa compresi di avere un enorme limite nella mia capacità di leggere le dinamiche della contemporaneità. Quante donne velate avevo realmente visto, fino a quel giorno?

Risposta: nessuna. Con questo intendo dire che sì, certo che ne avevo viste: madri che portano a scuola le compagne e i compagni di mio figlio, ragazze che fanno la spesa nei supermercati, nonne che portano i nipoti a giocare nei giardini pubblici. Però non le avevo veramente notate. Per me, molto semplicemente, lo hijab era un foulard, un capo d’abbigliamento tradizionale di donne fedeli all’Islam. Il mio anarchismo spirituale, (il mio agnosticismo), mi impedivano di pensare che portare il velo possa creare, o essere, un problema.

Invece, spesso, lo è. C’è sempre qualcuno che li crea, i problemi; in questo caso, chi vede nella donna che indossa lo hijab necessariamente una vittima della mancata emancipazione dai retrivi costumi religiosi e sociali del mondo islamico.

Ai miei pregiudizi se ne aggiunse uno che mai e poi mai avrei potuto preconizzare: niente da fare, è più forte di me: non riesco a sopportare l’islamofobia.

Nel corso dei mesi seguenti Luisa mi coinvolse sempre di più in quello che ho capito essere non solo un film. L’innovativa formula distributiva ideata da MovieDay l’ha portata in tour per le sale cinematografiche di tutta l’Italia.

Alcune volte in sala ci sono stato anch’io, e ho potuto assistere ai dibattiti che si accendono quando, finito il film, in sala le luci si riaccendono.

È proprio dalle dirette parole delle ragazze, delle donne che hanno parlato dopo la proiezione, che sul velo ho imparato molte cose. La più importante delle quali è che esistono moltissimi modi e moltissime motivazioni per indossare o non indossare il velo.

Ho sentito donne musulmane dire che il velo è per loro un atto di fede

Ho sentito donne musulmane dire che il velo per loro è emancipazione.

Ho sentito donne musulmane dire che per loro indossare il velo è trasgressione.

E ho ascoltato una ragazza musulmana svelare qualcosa di prezioso sulla sua quotidianità, sul rapporto che ha col suo hijab, e sulla sua migliore amica.

Grazie di essere venuta a vedere il film di Luisa, Khady, e per le cose che hai raccontato; sei riuscita a infondermi un po’ di ottimismo sul futuro.

Se prima di Porto il velo, adoro i Queen non avevo veramente visto le ragazze italiane che indossano il velo, dopo averle ascoltate parlare del loro hijab, dell’autentico significato di sharia (una parola che gli occidentali fraintendono, anche un po’ per opportunismo), hanno incominciato ad essermi molto simpatiche.

Anch’io, adesso, vedo nelle ragazze italiane di seconda generazione che non hanno voluto rinunciare ai valori e alla fede del loro Paese di origine un ponte tra due culture che non sono affatto inconciliabili.

Nel mio piccolo, ho parecchi pregiudizi. Ad esempio, non sopporto i muri. In compenso amo un sacco i ponti.

Evviva il velo. Evviva i Queen!