Cose che ho imparato da Porto il velo, adoro i Queen





Cose imparate dal docufilm di Luisa Porrino Porto il velo, adoro i Queen


Poco meno di un anno fa, ricevetti una telefonata da Luisa. Pensavo che avesse intenzione di parlarmi del breve filmato pubblicitario di cui, un paio di settimane prima le avevo parlato, appollaiati all’interno cortiletto di un posto dell’ARCI.

Orbene, c’era questo terzetto di imprenditori del catering che necessitava di un sito web, e voleva un filmato inserito nel header. I miei potenziali clienti avevano delle idee un po’ bizzarre in testa (filmino passo uno con fiori di Bach che spuntano dalla sabbia e si trasformano in qualcosa, droni che riprendono cerimonie nuziali, preventivi a pagamento decorati a mano… cose così). Mi era stato richiesto, in particolare, che il sito fosse “innovativo”. Tutti i webmaster sanno che il committente, in linea di massima, per innovativo intende l’icona di Facebook che si illumina quando ci passi sopra col mouse.

È andata a finire che i tre non accettarono né la mia idea di innovazione, né (soprattutto) il mio preventivo, per cui del filmato in stop motion non se ne fece nulla.

L’argomento della telefonata di Luisa non atteneva, però, a quel clippino. C’era la locandina di un film da “mettere un po’ a posto” per il Rome Indipendent Film Festival. Il film in questione era Porto il velo, adoro i Queen.

Insieme al file della locandina, opera di un teppista del Photoshop, Luisa mi passò una copia del suo nuovo docufilm.

Quella sera stessa lo guardai, e ne rimasi folgorato.

C’è un mucchio di gente che vive nel pregiudizio di non avere pregiudizi. Non credo di appartenere a quella categoria. Sono consapevole di avere molti pregiudizi. Ad esempio, non sopporto i razzisti. Che poi, di razzisti consapevoli di essere razzisti, non è che ne siano rimasti molti. Si sono trasformati in sciovinisti sostenitori di una qualche supposta superiorità delle culture occidentali sulle altre. Ecco, anche questi non li reggo.

Ed esiste un’altra categoria di persone su cui ho un incrollabile pregiudizio: chi è affetto da quella patologia che corre sotto il nome di “misoginia”. O fratelle e sorelli; ognuno ha i suoi propri inaccettabili sacrosanti pregiudizi, ed io, nel mio piccolo, difendo i miei a spada tratta.

La prima volta che vidi il docufilm di Luisa compresi di avere un enorme limite nella mia capacità di leggere le dinamiche della contemporaneità. Quante donne velate avevo realmente visto, fino a quel giorno?

Risposta: nessuna. Con questo intendo dire che sì, certo che ne avevo viste: madri che portano a scuola le compagne e i compagni di mio figlio, ragazze che fanno la spesa nei supermercati, nonne che portano i nipoti a giocare nei giardini pubblici. Però non le avevo veramente notate. Per me, molto semplicemente, lo hijab era un foulard, un capo d’abbigliamento tradizionale di donne fedeli all’Islam. Il mio anarchismo spirituale, (il mio agnosticismo), mi impedivano di pensare che portare il velo possa creare, o essere, un problema.

Invece, spesso, lo è. C’è sempre qualcuno che li crea, i problemi; in questo caso, chi vede nella donna che indossa lo hijab necessariamente una vittima della mancata emancipazione dai retrivi costumi religiosi e sociali del mondo islamico.

Ai miei pregiudizi se ne aggiunse uno che mai e poi mai avrei potuto preconizzare: niente da fare, è più forte di me: non riesco a sopportare l’islamofobia.

Nel corso dei mesi seguenti Luisa mi coinvolse sempre di più in quello che ho capito essere non solo un film. L’innovativa formula distributiva ideata da MovieDay l’ha portata in tour per le sale cinematografiche di tutta l’Italia.

Alcune volte in sala ci sono stato anch’io, e ho potuto assistere ai dibattiti che si accendono quando, finito il film, in sala le luci si riaccendono.

È proprio dalle dirette parole delle ragazze, delle donne che hanno parlato dopo la proiezione, che sul velo ho imparato molte cose. La più importante delle quali è che esistono moltissimi modi e moltissime motivazioni per indossare o non indossare il velo.

Ho sentito donne musulmane dire che il velo è per loro un atto di fede

Ho sentito donne musulmane dire che il velo per loro è emancipazione.

Ho sentito donne musulmane dire che per loro indossare il velo è trasgressione.

E ho ascoltato una ragazza musulmana svelare qualcosa di prezioso sulla sua quotidianità, sul rapporto che ha col suo hijab, e sulla sua migliore amica.

Grazie di essere venuta a vedere il film di Luisa, Khady, e per le cose che hai raccontato; sei riuscita a infondermi un po’ di ottimismo sul futuro.

Se prima di Porto il velo, adoro i Queen non avevo veramente visto le ragazze italiane che indossano il velo, dopo averle ascoltate parlare del loro hijab, dell’autentico significato di sharia (una parola che gli occidentali fraintendono, anche un po’ per opportunismo), hanno incominciato ad essermi molto simpatiche.

Anch’io, adesso, vedo nelle ragazze italiane di seconda generazione che non hanno voluto rinunciare ai valori e alla fede del loro Paese di origine un ponte tra due culture che non sono affatto inconciliabili.

Nel mio piccolo, ho parecchi pregiudizi. Ad esempio, non sopporto i muri. In compenso amo un sacco i ponti.

Evviva il velo. Evviva i Queen!


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *